V capitolo tesi Roberta Giudetti
Cap. V tratto dalla tesi
“L’EDUCAZIONE ALLA LETTURA IN ETA’ PRE-SCOLARE: IL CONTRIBUTO DI BRUNO MUNARI”
di Roberta Giudetti
a.a. 1991-1992
relatore: Chiar.ma Prof.ssa Silvia Kanizsa
Università Degli Studi di Milano
Facoltà di Lettere e Filosofia
V. LA PAROLA COME IMMAGINE
“(…) la vera condizione di letterato – il godimento della lettura e il significato che una persona ne trae arricchendone la propria vita – richiede che la lettura sia un’esperienza in cui l’intera personalità viene completamente coinvolta nei messaggi comunicati dal testo.” (Bettelheim)1
Bettelheim e Zelan, nel loro testo nato dalla ricerca sulla lettura infantile, svolta alla Scuola Ortogenica di Chicago, hanno sottolineato l’importanza che anche l’inconscio del bambino venga coinvolto nella lettura, nel processo dell’apprendimento e, successivamente, quando il bambino avrà imparato a decifrare con facilità. Ci si concentra, solitamente, su quelli che possono essere gli impedimenti fisici – come disturbi visivi o lesioni al sistema nervoso centrale – che ritardano o impediscono l’apprendimento della lettura, e non si tiene conto che, a volte, alcuni problemi possono derivare da meccanismi inconsci del bambino. Anche la voglia di leggere, il coinvolgimento tramite la lettura vissuta come magica avventura, ha indubbie e profonde radici nell’inconscio.questo motivo, l’insegnante non dovrebbe limitarsi ad insegnare a decifrare parole scritte tramite testi per lo più noiosi e privi di interesse, ma dovrebbe coinvolgere globalmente la personalità del bambino nella capacità di leggere, in questo evento che, nella carriera scolastica, è per lui il più importante.
Ma per comunicare a un bambino tutta la magia racchiusa nella lettura, occorre che anche l’insegnante non abbia dimenticato quali siano i colori del “mondo incantato”, occorre che l’adulto sia disposto ad avventurarsi in un simile viaggio che coinvolga anche il suo inconscio.
Questo, a nostro avviso, avrebbe potuto essere uno dei possibili discorsi di presentazione al corso “La parola come immagine”, tenuto da Maria Luisa Grimani, nel Laboratorio di Beba Restelli, iniziato il 21 febbraio 1992; un corso adatto “in particolare agli insegnanti, ai giovani artisti ed a tutti coloro che desiderino intraprendere un’avventura dentro e fuori dal linguaggio verbale”, come riportava il depliant che illustrava il programma di ciascuno dei sei incontri previsti.
Maria Luisa Grimani, oltre all’attività artistica e di ricerca nel campo dell’arte e della comunicazione visiva, che l’hanno portata ad essere protagonista di numerose mostre, ha realizzato diversi progetti nell’ambito della didattica. Nel 1978, ha aperto un Laboratorio a Monza dove, con la collaborazione di Beba Restelli, conduce corsi sull’educazione all’immagine dedicati ai bambini, ispirandosi alle metodologie di Munari con il quale ha collaborato, nel 1977, alla realizzazione del progetto “Giocare con l’Arte”, al Castello Sforzesco di Milano.
L’incontro con Munari avviene nel 1976, alla galleria Sincron di Brescia: nel libro “La scoperta del quadrato”, Munari pubblica alcune opere di Grimani della serie “Partite di scacchi”. “Tutto incominciò da una partita di scacchi” – afferma Maria Luisa Grimani – “Probabilmente se quel giorno non avessi avuto l’occasione di osservare le mosse di due giocatori di scacchi, la mia vita avrebbe avuto un corso diverso”. Durante una partita di scacchi, Grimani ebbe l’intuizione che “sarebbe stato interessante vedere la trama delle loro mosse se non addirittura la sintesi della loro partita”. Approfondì la ricerca sulle strategie e le tattiche dei giocatori, fino a che riuscì a cogliere quale sarebbe stata per lei la tecnica migliore, la soluzione più chiara, per rappresentarle visivamente, ed infine realizzò la sua visualizzazione di “Partite a scacchi”. Aveva compiuto un percorso, il tracciato dall’analisi alla sintesi era stato segnato. “A questo punto mi accorsi che avevo trovato un metodo di lavoro e che potevo applicarlo, adattandolo di volta in volta ai diversi linguaggi della poesia, del colore, della musica, della danza.” Aveva anche compreso che i suoi interessi erano indirizzati al “percorso” più che alla “meta” e prevedevano viaggi nel mondo del segno, della parola, del colore, del ritmo, del suono. Come all’Alice della nota fiaba, a Grimani “non interessa tanto dove” arrivare, perché prima o poi se ne accorgerà, ma il “come”. “Qualunque direzione si scelga, porta inevitabilmente a scoprire cose che sono già dentro di noi. Questo è per me il senso dell’inevitabilità delle cose.”
Dal 1977, inizia così il suo lungo ed inesauribile itinerario di ricerca sul rapporto tra parola e immagine, la sua interpretazione semiotica del testo poetico, la sua esplorazione di linguaggi diversi, non accettando nel modo più assoluto il limite che impone un linguaggio unico, nella costante proposta “dell’unità fra la persona e il tutto”.
In un certo senso, Grimani svolge l’intera sua opera, nel tentativo di realizzare un suo sogno infantile: quello di “scrivere un libro che suona, che canta, che balla”. Proprio perché da bambina non riusciva a capire quale fosse il suo vero talento, non sapeva se era nata per danzare, per recitare, per scrivere o dipingere, decise di coltivare tutte queste passioni. Quando nel 1974 iniziò a lavorare nello studio di progettazione di A G Fronzoni, a Milano, Grimani parlò con il noto grafico del suo sogno ed egli le mostrò un suo libro “che suona” (un libro-oggetto realizzato in parte con metallo che, agitandolo, suona come un sonaglio): allora ebbe “la certezza di essere sulla strada giusta”.
Fra le arti non esistono confini se l’uomo non li prevede e li impone. Per Maria Luisa Grimani esiste “il vuoto meraviglioso” e la possibilità di riempirlo: “Ho avuto da sempre la sensazione che qualsiasi pagina, foglio, tela bianca non fosse uno spazio delimitato ma fosse parte di un qualcosa di infinito e profondo”.
La stessa sensazione, la curiosità innata che l’accompagna in qualsiasi sua attività, il desiderio di arricchirsi, l’ha portata a lavorare con i bambini che, per quanto riguarda gli stimoli, sono un vasto territorio fertile. Durante i suoi corsi dedicati ai bambini, Maria Luisa Grimani, ama applicare le metodologie didattiche munariane ma “a differenza di Bruno, che parte da una tecnica precisa coinvolgendo i bambini di volta in volta in base a quella tecnica, io parto sempre da una sensazione, da un impulso, e in base a quello che sento, trovo la tecnica adatta e traccio il percorso. Per questo sono sempre a caccia di un’emozione, di un pensiero… per poi renderlo visivo”. Di parole che suggeriscono immagini e di immagini che inseguono parole.
E durante il corso “La parola come immagine”, Maria Luisa Grimani ha cercato di dare a i suoi allievi una tecnica per poter avviare una ricerca sul rapporto fra parola e immagine, una ricerca che, nei sei incontri, si è delineata ed ha preso forma, ma con l’aspirazione di non esaurirsi una volta conclusosi il corso, bensì di essere coltivata individualmente anche in seguito. Sin dal primo incontro, dopo essersi presentata leggendo il dialogo tra Alice e il gatto del libro di Carrol e aver richiesto agli allievi presenti di presentarsi a loro volta, l’avvio è stato dato proprio con un discorso sulla tecnica con riferimento, in particolare, ad Ugo Carrega, uno dei massimi esponenti della poesia visuale. Carrega scrive che ricorda di aver cominciato a comporre poesie a partire dai tredici anni, se non prima.
E all’inizio era “l’urlo esistenziale, il malessere giovanile”, il sentimento. Ma rileggendo a freddo, criticamente, quei versi, scopriva un forte distacco fra l’urlo, il sentimento e la sua scrittura. Da allora Carrega abbandonò l’idea che la poesia fosse solamente un fenomeno intuitivo, ma si convinse che fosse anche un “lavoro”, “ossia un’applicazione razionale agli strumenti e ai materiali verbali”. Iniziò a lavorare sul suono e sul ritmo in modo che, se fosse stato un pessimo poeta, avrebbe potuto comunque affinare il suo stato intuitivo con l’apprendimento di tecniche.
Certo, è importante trovarla la tecnica adeguata ad esprimere quel particolare stato d’animo che ci ha spinto ad afferrare carta e penna, o pennello, o strumento musicale, o che fa vibrare il corpo verso il gesto in cui meglio ci identifichiamo. Per questo, è necessario “saper tornare indietro per poter andare avanti, rallentare per correre”, tenere vivi nella memoria i versi di Eliot: “Il tempo presente e il tempo passato, sono entrambi contenuti nel tempo futuro, e il tempo futuro, è presente nel tempo passato”. Qualunque direzione sceglieremo, ci porterà a scoprire cose che erano già dentro di noi.
A questo punto, può iniziare l’avventura grafico pittorica sonora.
Grimani, durante i suoi corsi, preferisce lavorare su un unico testo, in modo da avere il tempo di analizzarlo accuratamente, di poter svolgere di volta in volta letture affrontate da angolazioni diverse, per poi rendere visivo e rappresentare il ragionamento, il percorso che ha portato ad interpretare la poesia o il racconto ogni volta in modo diverso. Per il corso ’92, Grimani ha scelto una poesia di Fernando Pessoa, intitolata “Pioggia obliqua”, tratta dal libro “Una sola moltitudine”. La scelta di Pessoa, grande poeta e prosatore portoghese del nostro secolo, è stato in parte un omaggio alla città di Lisbona che ha organizzato all’Istituto Italiano de Cultura la sua personale intitolata “Il vuoto meraviglioso” nel 1990, in parte, e soprattutto, un omaggio a questo autore che è stato uno dei più grandi sperimentatori del ‘900, che ha raggruppato in sé tanti autori, tanti destini, tanti stili diversi creando dalla sua penna scrittori come Ricardo Reis, Alvaro de Campos, Bernardo Soares, Alberto Caeiro e molti altri ancora, e tutti insieme furono “una sola moltitudine”: Fernando Pessoa.
Coerentemente quindi, la scelta è ricaduta su un autore che ha saputo esplorare più linguaggi, non accontentandosi di un’unica personalità.
Si procede ad una lettura della poesia “Pioggia obliqua”, versi che descrivono un momento di “intersecazione e percezione del paesaggio esteriore col paesaggio interiore” di Pessoa, in cui quello che accade all’esterno, si confronta e si confonde con quello che accade all’interno, nel suo animo, in un alternarsi di immagini caleidoscopiche.
Si incomincia con un’analisi del titolo: viene definito il termine “pioggia” e poi, ciascun partecipante al corso, è invitato a suggerire le sensazioni tattili che la pioggia comporta e, in particolare, quelle più immediate.
Oltre alle sensazioni tattili, si cerca di indicare il colore, l’odore differente in base a dove cade e così la percezione sonora.
Ognuno può procedere con le proprie associazioni e narrare quale sia la prima immagine che gli appare pensando alla pioggia, e a quale senso in particolare è maggiormente legata. C’è chi si è concentrato sull’olfatto, e immediatamente pensa ad un temporale estivo in città, quando l’asfalto è rovente e, con la pioggia, si diffonde un acre odore, ben diverso dai temporali in campagna o al mare, più nostalgico l’odore di terra o di sabbia bagnata.
C’è chi privilegia l’udito, e racconta del piacevole ticchettio notturno, ascoltato sotto le coperte, o della sensazione di paura provata sentendo i tuoni. E c’è chi istintivamente rammenta la sensazione di umidità, i vestiti appiccicati alla pelle dopo un acquazzone improvviso, il piacere di gettarsi sotto l’acqua dopo che si è sofferto lungamente il caldo e, magari, assaporarne anche il gusto.
Le immagini scorrono come sequenze di film diversi fra loro ma con un unico tema in comune.
Ma il titolo completo è “Pioggia obliqua”: qualcuno interviene all’istante – Evidentemente c’è vento -. Riparte la moviola, ricominciano le associazioni personali, le immagini. L’intero testo viene letto cercando di vedere tutto quello che può esserci oltre il significato linguistico delle parole scritte. Il primo incontro si conclude nel momento creativo: ognuno sceglie una strofa della poesia il cui testo è stato fotocopiato ed ingrandito; la incolla su un cartoncino leggero; ritaglia lettera per lettera ed infine, incollandole su un foglio bianco, rappresenta e visualizza la propria “Pioggia obliqua”.
Nero su bianco, ora, la pagina e il quadro, parole e immagini che si integrano, si sovrappongono e diventano una nuova forma di espressione. Con questa tecnica, Maria Luisa Grimani ha realizzato numerose opere, basandosi su testi di Apollinaire, di Eliot, visualizzando Haiku, Natale di Ungaretti, o la stella di Natale di Pasternàk ma molti altri autori l’hanno ispirata. Esiste anzi un filo conduttore fra le opere letterarie che l’hanno maggiormente influenzata e indirizzata verso questa ricerca artistica: gli autori in questione sono Rimbaud, Mallarmé, Apollinaire e Joyce. In ognuno di loro possiamo trovare tracce della costante aspirazione di creare un’opera globale, che coinvolga tutti i sensi, che comprenda linguaggi diversi, che renda visibile l’invisibile, che viva all’interno e all’esterno dell’individuo, che sia universale. “E’, infatti, nella scoperta della totalità di anima e corpo nell’uomo che trova un senso la nostra continua ricerca.” (Grimani)
Rimbaud sognava “una parola accessibile a tutti i sensi, che sia dell’anima per l’anima, che riassuma tutto, profumi, colori, suoni del pensiero che afferra il pensiero e lo tira fuori”.2
Mallarmé si proponeva di “partire dalla sensazione, restituirla a forza d’arte a tutta la sua freschezza primitiva e permettere di accedere attraverso questi suoni, questi profumi, questi colori, alla polpa delle parole, fino all’idea pura delle cose, senza impoverire il poema con un’unica interpretazione, ma lasciargli un irradiamento dei diversi sensi che si combinino e si arricchiscano l’un con l’altro (…) da più vocaboli rifare una parola totale, nuova, straniera alla lingua e incantatrice”.
Apollinaire, in modo particolare – spiega Grimani agli allievi del corso – con i suoi calligrammi, dispone le parole in modo da creare delle immagini per accompagnare il senso letterale ad una suggestione visiva, realizzando l’integrazione fra segno e idea.
Infine l'”Ulisse” di Joyce, nella sua ecletticità, si impossessa di più linguaggi, come scrive Harry Levin: “il montaggio del cinema, l’impressionismo della pittura, il leitmotiv della musica, la libera associazione di idee della psicanalisi, il vitalismo della filosofia. Prendete da questi elementi tutto ciò che è possibile amalgamare e forse anche di più e avrete lo stile dell’Ulisse.”
Insieme, si procede con la lettura della poesia “Vocali” di Rimbaud, si osservano alcuni calligrammi di Apollinaire. Dopo questo viaggio fra i poeti che hanno svolto la stessa ricerca nell’universo della parola, una volta trovato quel filo d’Arianna che Grimani ha indicato e che era indispensabile per avere un punto di riferimento, una fonte alla quale rivolgersi, il testo di Pessoa può essere ripreso in mano, riaffrontato in base ai nuovi stimoli che sono giunti dalla lettura dei poeti simbolisti. Il secondo momento creativo consisterà nel dare un’immagine alla poesia di Pessoa usando, questa volta, parole e colore, utilizzando carte colorate se si vorrà ricorrere al collage, oppure tempera, pennarelli, o quello con cui ognuno sentirà di potersi esprimere meglio. Dietro ogni scelta c’è una motivazione precisa, un perché: la scelta di una strofa della poesia di Pessoa piuttosto che un’altra, e il desiderio di rendere visivi proprio quei versi, indicano un aspetto della nostra personalità o il particolare stato d’animo che stiamo vivendo, il pensiero che abbiamo colto in quell’istante, che ci ha colpito lasciando un segno come un solco nell’anima. Sul foglio bianco prenderanno forma i pensieri ispirati dalla lirica di Pessoa, e la medesima strofa adottata casualmente da più alunni, le medesime parole, danno vita a visualizzazioni completamente diverse fra loro.
“Dietro ogni scelta c’è un perché”, Grimani racconta che un giorno Kandinsky ebbe l’occasione di osservare un suo quadro appoggiato alla parete capovolto illuminato da un raggio di sole. Potè notare come il colore poteva essere comunicativo senza il condizionamento dell’immagine. Era il 1910, e Kandinsky, da questa riflessione, realizzò il suo primo acquarello astratto.
Mallarmé, già anziano, fu colpito da un lancio di dadi, tanto da scrivere una delle poesie più innovative e geniali del ‘900: “Un coup de dés jamais n’abolira le hazard”.
La poesia si apre con questi versi e si chiude con gli stessi versi, scritta come una partitura, parte da un Do e termina con un Do. Utilizza otto caratteri diversi, otto come le note musicali, e corpi tipografici di varia grandezza per sottolineare l’importanza del suono della parola. I versi si sviluppano su più pagine che si aprono come uno spartito.
Dietro la scelta di Maria Luisa Grimani di avviare questa ricerca artistica, ripetiamo, una partita a scacchi.
Il desiderio di sperimentare, di mettersi in gioco o di conoscersi, di capirsi, spesso può essere la molla decisiva che spinge a intraprendere nuove indagini, di qualsiasi genere queste siano. Nel tipo di lavoro portato avanti da Grimani durante il corso, i partecipanti sono stati invitati a sperimentare, oltre ad un nuovo metodo di approccio al testo scritto, una nuova calligrafia. La stessa frase, scritta con caratteri, corpi diversi, diversa inclinazione e spaziatura, suggerisce stati d’animo differenti. Una calligrafia può apparirci nervosa, un’altra rilassata, un’altra ancora curatissima oppure trascurata. Sul medesimo foglio bianco, si può provare a mettere a confronto diverse calligrafie, sforzandosi di diversificarle il più possible, scrivendo però un’unica frase, ovviamente una strofa dalla poesia di Pessoa, utilizzando più strumenti, dalle cannucce ai vecchi pennini per inchiostro, da pennelli a penneralli di varie dimensioni. Il tratto sarà sempre diverso e di conseguenza l’immagine che la lettura di questi versi ci darà. Infine, si può provare ad inventare un nuovo alfabeto e poi utilizzarlo per riscrivere i versi eletti, come quando da bambini si giocava a inventare dei codici, dei linguaggi indecifrabili per gli adulti. A volte, un incontro, si trasforma in un viaggio nella memoria, e l’alunno riscopre qualcosa di sé che aveva scordato da tempo. Come in uno degli ultimi incontri, in cui gli alunni avevano ricevuto il compito di portare da casa qualcosa di personale da utilizzare nella realizzazione di un libro-oggetto: un pezzetto di stoffa, delle carte particolari, alcune fotografie, piccoli oggetti che fossero in qualche modo rappresentativi di ognuno.
Prima di giungere alla creazione dell’opera, Maria Luisa Grimani ha condotto i suoi allievi attraverso la storia del libro-oggetto, partendo dal Futurismo, dalle Tavole Parolibere di Marinetti, passando da Cangiullo e Soffici, ricordando Munari e Depero. Il libro-oggetto, che successivamente verrà chiamato “libro d’artista”, è il libro in cui la parola perde il suo tradizionale significato, in cui l’oggetto-libro prende il posto della parola, diviene opera unica, scultura. L’immagine, e ancor di più l’aspetto materico e tattile del libro, prende il sopravvento sulla scrittura. Vengono citati anche i dadaisti e i surrealisti che operarono nel campo della de-strutturazione della parola e del testo. Allora perché non provare a leggere la poesia di Pessoa nel modo in cui l’avrebbe letta un dadaista? Si prende una strofa o, a piacere, l’intera poesia, si separarono le parole, le si introducono in una busta e si ricompone la strofa estraendo a caso le singole parole.
Il risultato potrebbe sembrare un collage di parole senza significato, ma al di là del senso immediato, rimane il suono della parola, le immagini che poco prima quella stessa strofa ci aveva regalato, ora si spezzano e se ne creano altre. A volte, per far variare l’immagine che giunge da un testo scritto e che può essere diventata ormai stereotipo, basta poco. E’ sufficiente leggere quel testo dando un ordine diverso alle parole, come abbiamo appena visto, oppure, come suggerisce Ugo Carrega, basta che queste parole siano scritte su un tipo di carta diversa dal solito. “Le carte arrussignite”, sono carte sulle quali è stato scritto qualcosa e poi sono state stropicciate, arrotolate, spiegazzate o bagnate. La sensazione e l’immagine che perviene dalla poesia di Pessoa letta su carte “arrussignite”, può essere ancora qualcosa di diverso rispetto a quello che si è già sperimentato. Ma si può andare oltre. Si può decidere di trascrivere la poesia di Pessoa su un libro nuovo, un libro-oggetto realizzato con le cose portate da casa. Un libro d’artista che abbia pagine di materiali e di formati diversi, che sia personalizzato con gli oggetti di ognuno. Ne sfogliamo uno: la copertina è d’acetato e lascia vedere la pagina seguente, un foglio rosso che riporta il marchio di una libreria; poi una pagina di carta da lucido che lascia intravedere quella successiva, sembrerebbe, vista così attraverso il lucido, grigio-blu con un biglietto del cinema appiccicato sul fondo. Voltiamo e scopriamo che c’eravamo ingannati solo sul colore: è un blu scuro tendente ai toni del viola e la carta al tatto non è liscia, sembra un po’ lavorata. Di seguito, una pagina gialla, di formato più piccolo, quadrata, posta al centro. Voltandola, scopriamo una foto dai colori sbiaditi, in cui possiamo vedere un vecchio portone ad arco e, sedute per terra, tre bambine che sorridono. Di nuovo il foglio giallo, di nuovo quello viola-blu con attaccato questa volta un biglietto di ingresso ai quartieri monumentali di Palazzo Vecchio a Firenze, il foglio di carta da lucido, quello rosso della libreria ed infine l’acetato. Su alcune pagine, scorrono i versi di una strofa di “Pioggia obliqua”. Questo iter nel passato, nello sregolato, trasgressivo ed affascinante mondo di futuristi e surrealisti, termina con una visita di gruppo all’Archivio di Nuova Scrittura che ha sede a Milano in via Orti, dove si possono toccare con mano, più che vedere, molti dei poemi-oggetto e dei libri originali degli artisti sopra citati.
L’esplorazione di linguaggi, l’indagine sul rapporto fra parola e immagine, sembra essersi avviato verso la conclusione. Manca un collegamento, un ultimo tratto che avvicina ad un altro genere di poesia, quella sonora. Attraverso un ascolto paziente, si compirà un prezioso percorso sul suono e sulla musicalità della parola, partendo dalle parole onomatopeiche, fono ad arrivare alle ricerche di Demetrio Stratos. Viene letto da 101 Storie Zen, “Il suono di una sola mano”, dove un allievo, dopo molti tentativi vani e dopo aver lungamente meditato, giunge a scoprire quale sia il suono di una sola mano, ossia scopre il proprio suono interiore, la propria musica.
Una singola parola può avere più suoni, anche se la nostra voce ci sembra sempre la stessa, è quello che sentiamo dentro di noi, il nostro stato d’animo, che ci porta ad attribuire alla medesima parola, un tono sempre diverso. Possiamo dire “mai” adottando un tono minaccioso, oppure “mai?” con tono interrogativo, magari un po’ ironico, dubitativo o affermativo. Quando seguiamo un discorso, oltre alle parole pronunciate nella lingua scelta che ovviamente comporta specifici costrutti grammaticali e sintattici, bisognerebbe prestare attenzione all’intonazione, agli accenti, alle pause, in modo da comprenderne il senso più profondo.
Anche quando si legge un testo qualsiasi, e in modo particolare se si tratta di una poesia, occorrerebbe tenere presente il tono della lettura. Ma a scuola – sottolinea Maria Luisa Grimani – ci viene insegnato a decodificare l’alfabeto, mentre non esiste una disciplina che comprenda l’educazione al tono della lettura. Eppure se si chiedesse a un bambino “Vuoi provare a leggere questa pagina con tono euforico?” oppure “vuoi provare a leggere sussurrando?” sarebbe, oltre che una meravigliosa scoperta delle capacità interpretative che i bambini posseggono naturalmente, un metodo per incoraggiarlo a leggere senza che la lettura gli appaia “sempre la solita cosa”, senza annoiarlo.
Grimani propone un piccolo esperimento: leggere a piena voce un brano della poesia di Pessoa, sorteggiando un bigliettino per il tono, l’intensità e il ritmo. Lo stesso brano viene letto con tono sereno, grave, euforico, drammatico, con forte intensità, gridando o sussurrando, con ritmo lento, sillabato, irregolare, spezzato, rapido, uniforme quasi piatto. Concentrandosi, si avrà la possibilità di far scorrere nella mente nuove immagini a seconda se la persona che abbiamo di fronte sta urlando quella poesia o, se al contrario se la sua voce giunge come una lieve melodia.
Per mettere maggiormente in evidenza l’importanza di questo esercizio fatto con la voce, si procede con l’ascolto di voci: Ungaretti che recita “Sono una creatura”, Artoud durante la sua ultima conferenza, Arnoldo Foà e Carmelo Bene che interpretano entrambi il V Canto dell’Inferno dantesco, il miserere del coro dell’arco alpino confrontato con quello di un coro sardo, i canti gregoriani bulgari e quelli dei monaci tibetani, e soprattutto le ricerche vocali di Demetrio Stratos in “Le Milleuna”. Nanni Balestrini scrisse questo “testo da dire”, cento parole su richiesta di Stratos, che “si sono poi moltiplicate nel ‘dire’ di Demetrio, fino a diventare dieci volte tanto, fino a diventare mille e una parola diverse tutte fra loro tranne che per l’iniziale lettera s”.3
Mille modi di dire, mille modi diversi di dare corpo alla propria voce.
Ora il viaggio può dirsi terminato, o meglio, si è concluso il compito della guida che ha indicato la strada e ha consegnato gli strumenti idonei al cammino che è appena cominciato e che ognuno potrà continuare, tanto non importa se la meta è ancora lontana, quello che veramente interessa, è la direzione intrapresa.
Abbiamo chiesto a Maria Luisa Grimani se, oltre che con gli adulti, ha già lavorato con bambini in età prescolare sulla parola come immagine. Ci ha risposto che con loro è ancora più facile lavorare che con le persone adulte. Per i bambini è molto più spontaneo giocare con le parole, concentrarsi sui suoni, sui colori, sugli odori. Hanno meno inibizioni quando gli si chiede di esprimersi attraverso il disegno. E’ sufficiente suggerirgli come fare, sottoporre loro un testo adeguato come può esserlo un racconto di Rodari, una filastrocca o una fiaba, e guidarli in questa avventura.
Anche se ancora non sanno leggere, la parola appresa nel suo legame con l’immagine, coinvolgendo globalmente la personalità del bambino, in profondità e stimolando la sua curiosità plurisensoriale, sarà vissuta come la “monade magica” di cui parla Bettelheim e, durante la crescita, riaffiorerà alla memoria pronta a sollecitare la voglia di leggere e il desiderio di essere “letterati”, ossia di sapere assaporare, coltivare ed amare la lettura. “C’è motivo di credere che soltanto coloro per cui la lettura sia stata provvista sin dall’infanzia di qualità visionarie e di un qualche significato magico diventino letterati.”4
1 B.Bettelheim, K.Zelan, Imparare a leggere (Come affascinare i bambini con le parole) Feltrinelli Milano 1982.
2 A.Rimbaud, Io è un altro ***
3 Gigliola Nocera, presentazione de “Le Milleuna”, testo di Nanni Balestrini, voce di Demetrio Stratos, danza di Valeria Magli.
4 B.Bettelheim, K.Zelan, op.cit.
marzo 6, 2014 alle 5:32 pm |
[…] il contributo di Bruno Munari”. Fu una bella sorpresa quando mi avvisò che il V° capitolo era interamente dedicato a quanto appreso nel mio seminario. Ora ho potuto finalmente […]
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