Leggo nella presentazione: “Sequenza I è costruita a partire da una sequenza di campi armonici, dai quali scaturiscono con un massimo di caratterizzazione le altre funzioni musicali. In Sequenza I viene precisato e sviluppato melodicamente un discorso essenzialmente armonico fino a suggerire un ascolto di tipo polifonico. Nel 1958 utilizzavo il termine polifonico in senso letterale, e non in senso virtuale, come invece tenderei a fare adesso lavorando con strumenti monodici. Volevo cioè raggiungere un modo di ascolto così fortemente condizionante da poter costantemente suggerire una polifonia latente e implicita. Sequenza I è stata composta nel 1958 per Severino Gazzelloni.” Luciano Berio
Durante l’ascolto scatta il meccanismo dei ricordi e mi torna in mente il suono del flauto nel Teatro Nō ascoltato durante la mia ricerca legata al segno suono.
il flauto traverso costruito con canne di bambù è usato come percussione
una musica che scandisce i movimenti degli attori: il flauto accompagna l’inizio e la fine di questo video
Ho un libro di Kazuko Okakura che si titola “Lo Zen e la cerimonia del tè ” edito dalla Feltrinelli dove si racconta la leggenda dell’Arpa domata ed io la leggo sempre volentieri agli ospiti interessati ai miei lavori realizzati con il legno della paulownia (l’albero racconta). Recita così:
“Anticamente, nella gola di Lung-men si ergeva un kiri (paulownia), autentico re della foresta. Sollevava la cima per parlare con le stelle; le radici erano penetrate così profondamente nel suolo da intrecciare le loro spire bronzee con quelle del drago d’argento che dormiva nelle viscere della terra. Poi accadde che un potente mago ricavò dall’albero un’arpa prodigiosa, il cui spirito ostinato soltanto il più grande dei musicisti sarebbe riuscito a domare. Per molto tempo lo strumento fu custodito come un tesoro dall’imperatore della Cina, ma i tentativi di quanti cercavano di trarre melodie dalle sue corde risultarono vani. In risposta ai loro sforzi immani, dall’arpa non uscivano che stridule note di disprezzo, che non si intonavano con le canzoni che essi avrebbero voluto innalzare. L’arpa si rifiutava di riconoscere un maestro.
Si presentò infine Po Ya, il re degli arpisti. Accarezzò l’arpa dolcemente, come se si trattasse di ammansire un cavallo recalcitrante, e sfiorò delicatamente le sue corde. Cantò la natura e le stagioni, le alte vette e le acque fluenti, e tutti i ricordi dell’albero si ridestarono! La dolce brezza primaverile scherzò ancora una volta tra i suoi rami. Le cascatelle, che scendevano danzando nelle gole, gioirono alla vista dei fiori in boccio. Nuovamente risuonarono le sognanti voci dell’estate, con le miriadi d’insetti, il dolce tamburellare della pioggia, il richiamo del cuculo. Udite! Una tigre ruggisce – la vallata risponde. E’ autunno; nella notte deserta la luna risplende, tagliente come una spada, sopra l’erba gelata. Ora regna l’inverno; nell’aria carica di neve c’è un turbinio di stormi di cigni, e i chicchi di grandine colpiscono i rami con gioia selvaggia.
Po Ya cambiò poi accordo e iniziò a cantare l’amore.
La foresta ondeggiava come un ardente innamorato perduto nei propri pensieri. In alto, simile a una fiera vergine, avanzava una nuvola chiara e lucente, ma il suo passaggio gettò lunghe ombre sulla terra, nere come la disperazione. La tonalità cambio ancora: Po Ya cantò la guerra, il clangore delle spade e lo scalpitio dei cavalli. E nell’arpa si scatenò la tempesta di Lun-men, il drago cavalcava il fulmine, la valanga si abbatteva sulle montagne. Estasiato, il monarca celeste domandò a Po Ya quale fosse il segreto della sua vittoria. “Sire” rispose “gli altri hanno fallito perché cantavano solo se stessi. Io ho lasciato che fosse l’arpa a scegliere il tema, e realmente non sapevo se l’arpa fosse Po Ya o Po Ya l’arpa”.”
Domenica 20 gennaio 2013, Museo del Novecento a Milano, sala Fontana. Sullo sfondo, oltre le vetrate, piazza Duomo e l’imponente cattedrale gotica. Non ricordo bene se ci fosse il sole fuori ma sicuramente c’era dentro. Hanno inizio le sequenze del maestro Luciano Berio per flauto Lorenzo Missaglia, arpa Elena Gorna e voce Alda Calello.
E’ iniziato il mio anno sabbatico, questa volta mi prendo sul serio e chi vuole accompagnarmi per mano può darmi suggerimenti, critiche costruttive e incoraggiamenti
Che cosa è e che origine ha l’espressione anno sabbatico?
Nell’antica tradizione ebraica, a partire dal V secolo a.C., l’anno sabbatico era quel periodo durante il quale, in onore a Dio e secondo le leggi Mosaiche, si lasciava riposare la terra, si condonavano i debiti e venivano liberati gli schiavi. Schiavi, infatti, erano quelle persone che, per debiti non pagati o reati commessi, dovevano lavorare per la famiglia del creditore fino a risarcirne i danni. Durante questo periodo il creditore provvedeva al mantenimento dello schiavo e, alla sua liberazione, gli versava una somma che gli consentisse di riprendere una vita normale. La restituzione, tuttavia, si concludeva in ogni caso nell’anno sabbatico, che cadeva ogni sette anni: per questa ragione si diceva che era fortunato colui che iniziava a pagare i propri debiti in un momento vicino al settimo anno. Oggi l’anno sabbatico è un anno di congedo retribuito cui i docenti universitari hanno diritto per dedicarsi alla ricerca scientifica e all’aggiornamento: due volte ogni dieci anni in Italia, una ogni sette negli Usa. Il termine è diventato anche sinonimo di un lungo periodo di riposo lontano dalla professione lavorativa.
Essendo io cattolica praticante, anche se a volte in contrasto con l’ apparato della Chiesa, parafraso questa presentazione così:
Il mio anno sabbatico sarà un anno di riflessione, di più tempo dedicato alle persone, di messa a punto delle mie ricerche attraverso la creazione di nuovi libri d’artista, di rilettura di molti testi che hanno ispirato i miei lavori, di uno sguardo sul mondo con occhi nuovi, visto anche che in quello destro ho il cristallino nuovo di pacca! Il tutto senza retribuzione!